A tre anni dall’elogiatissimo album suDomenico Modugno, Mirco Menna torna in pista con un nuovo lavoro di brani propri (tutti tranne l’ultimo, di cui diremo). Il titolo, come sempre nell’artista bolognese, è ricercato e arguto nel contempo: Il senno del pop. C’è del senno nel pop (più o meno odierno), sembra domandarsi il Nostro? E se sì, dove si nasconde? Magari dietro a brani come i suoi (ma Mirco Menna è pop?), all’apparenza spesso sbarazzini, alcuni ironico-istrionici (arguti, volendo ripeterci), altri più “compresi di sé” (con tutte le virgolette del caso), comunque sempre d’impatto, tali da non lasciare indifferenti. Il che – specie di questi tempi – è sempre un discreto pregio (e conseguente complimento, se lo si fa) per quelle che si vuole siano pur sempre canzonette, come ci avrebbe apostrofati il dottor Jannacci (e Bennato ci ha fatto pure un disco…).
Si parte con Portati da un fulmine, briosa, fruibile, cui seguono la più morbida Arriverai, con bel cello iniziale e successiva esplicita danzabilità, e Così possiamo, a compimento di un trittico “d’assaggio” di estrema leggibilità, certamente intenzionale. Con Sole nascente, che si avvale dell’apporto di Gianni Coscia, si entra nel cuore pulsante del disco, di cui il pezzo rappresenta uno dei vertici incontestabili. La sua ubicazione è strettamente alessandrina: Coscia e la sua fisarmonica sono alessandrini, in provincia di Alessandria si trova Volpedo, il paese reso universalmente noto da Giuseppe Pellizza e dal suo Quarto Stato, anche se qui il quadro cui ci si riferisce è un altro, appena meno noto e celebrato (almeno da chi conosce un minimo l’artista), Il sole, e ad Alessandria ha pure sede L’Isola ritrovata, il locale dove il rendez-vous Menna/Coscia (il quale non ha lesinato anche qualche indicazione sull’arrangiamento) ha avuto luogo, e dove del resto Mirco è di casa.
Testo surreale e non privo di genialità nella successiva Il descaffalatore,
che la tromba manipolata di Maurizio Piancastelli contribuisce a straniare ulteriormente, e subito dopo docile danzabilità, elegante e affabulatoria, in Ora che vai via, dolente meta-canzone dell’abbandono (di tutti gli abbandoni) e, ancora, un gran bel tiro nel brano a due voci con Zibba, Prima che sia troppo tardi, traino ideale per l’intero cd. Che si conclude, nella sua essenza ufficiale, col pezzo che lo intitola. E che ne rinverdisce brio e surrealtà (testuale).
I due brani di commiato ci vengono infine offerti come altrettante bonus tracks. Trattasi di Da qui a domani, live, già presente in “E l’italiano ride”, brillante precedente confezionato anni fa in combutta con la Banda d’Avola, e della gaberiana Chiedo scusa se parlo di Maria, registrazione attempata (primi anni Duemila) già edita dal Mucchio Selvaggio e “qui riproposta con tutto il cuore”, come ci viene precisato. Dire che non guasta, a suggello di un disco già di per sé già “saporito” (come scrisse Paolo Conte per l’esordio di Mirco, “Nebbia di idee”), è il minimo che possiamo fare. Anche noi con tutto il cuore.
Foto: Alberto Bazzurro
Fonte: l’isola che non c’era